mercoledì 19 giugno 2013

Federica Giordano - "A volte dalla tua bocca..."




Riprendo, dopo un lungo periodo di assenza, la cura di questo semplice blog al servizio della poesia altrui e lo faccio con una giovane autrice napoletana: Federica Giordano, classe 1989.
Sono profonde e visionarie le poesie di Federica che ho potuto ascoltare, qualche volta, dal vivo.
In molte di queste, è dal corpo che nasce un riconoscimento, una consapevolezza, la ragione prima dello svolgersi del tempo e delle storie. Ma del corpo si libera la sola cosa capace di altezze e libertà: il suono. Il ripetersi dei fonemi brillanti e salvati dall’oblio.
Molto di questa teoria precisa e affascinante le viene da un modo tutto eclettico e variegato di conoscere e riconoscere le materie dello spirito. Federica frequenta la musica, la danza, la lingua tedesca… accosta in modo fiero e rigoroso letture di prosa a un paesaggio ricco e suggestivo quale quello che sperimenta e in poesia e in alcune sue recenti opere di critica. Non deve meravigliare, dunque, che citi la Jaeggy, scrittrice svizzera di madrelingua italiana amica – tra gli altri – della Bachmann, proprio in un passaggio che rende forte e vivo il filo del discorso fin qui fatto.
I versi proposti, infatti, che rincorrono e ritracciano la genesi del discorso personale di Federica in poesia, sono corredati da un preciso auto-commento, piccolo ma intenso manifesto di poetica personale.

                                                                                                                                                                              ar







 
***
 
A volte dalla tua bocca

uscivano trame nere

che io avrei dovuto

intrecciare ai capelli.

 

Mi infilavo invece sotto

il vuoto delle barche.

 

Ascoltare lo sbatacchiare minore

e guardare dal fondo

la proiezione irreale.

 

Il mio suono

è quello delle grotte,

dove ogni variare

ha un corteo di rumore.

 

-Non ti devi bagnare!-

Così mi disse il narratore lontano.

 

-Pagine asciutte!

Non bisogna strappare un solo pelo

allo scalpo del silenzio!-

 




"Qualche volta mi incamminavo verso la piccola stazione di Teufen e mi mettevo in ascolto: riudivo il breve saluto filisteo di Frédérique: Adieu, un suono breve e morigerato. Gli addii hanno lontane progeniture e i paesaggi li coprono di sterpaglia e di polvere".

Fleur Jaeggy


Con la scrittura, si tenta di conservare il lembo bianco degli addii, si prova a fare in modo che ci sia un angolo senza sterpaglia e senza polvere. Molto spesso, il suono, proprio per la sua natura eterea, riesce molto bene a conservare il sapore “originale” delle esperienze e la memoria uditiva lo chiude in un cristallo isolato. E’ la corazza dell’etica, di quello che si impara vivendo e che, dopo giorni, mesi, anni, risulta essere in noi un valore ingenerato e fine a sé stesso. Sono trame nere da intrecciare i capelli, sono le parole dimenticate che il tempo ha rivestito di verità e che improvvisamente, iniziano a brillare. Per me è spesso un suono ad accendere fari interiori, fari che illuminano i piccoli spazi essenziali della mia abbondante memoria superflua. E quindi si resta zitti, senza fare violenza al silenzio che ci risponde.

Federica Giordano












Federica Giordano è nata a Napoli nel 1989. Si laurea con 110 e lode in Lingue e culture moderne con una tesi in traduzione letteraria dal tedesco dal titolo “ Traduzione e traducibilità della poesia. Porcellana di Durs Grünbein”.
Nel 2008 pubblica la raccolta poetica Nomadismi, Edizioni Il Filo. Nel 2009 è autrice del testo in musica Favola di Mezzanotte, musicato dal compositore G. Mancusi. Nel 2011 pubblica La parte che ti ho affidato, Boopen Led Edizioni. Suoi testi ricevono segnalazioni a premi e concorsi, tra i quali il concorso Omaggio a Mario Luzi. Viene segnalata per la sezione “Giovani autori” alla X edizione del Concorso Nazionale di Poesia Città di Sant’Anastasia. Sue poesie vengono pubblicate su riviste specialistiche tra le quali Gradiva, La clessidra e siti di poesia. Partecipa a readings poetici e rassegne letterarie come Il festival della Letteratura di Narni e Una piazza per la poesia di Napoli. Si occupa di critica letteraria per varie riviste tra cui Officina Poesia – Nuovi Argomenti. Da segnalare il suo servizio sulla raccolta “Porcellana – Poema sulla distruzione della mia città” di Durs Grünbein, pubblicato nel numero di Febbraio 2013 della rivista Poesia.

venerdì 3 maggio 2013

Geografie variabili - Quattro poeti campani

Questo articolo è già apparso in Farepoesia num. 6 Marzo 2012 - Anno 3





Geografie variabili
Quattro poeti campani

 

 
Che il titolo (ripreso da una sezione dell’ultimo lavoro di Stelvio Di Spigno,“La nudità”) sia utilizzato in riferimento a quattro poeti di una stessa regione e che poi, nel suo significato, distingua diverse geografie non è una stravaganza o, meglio, forse lo è ma, sicuramente, è anche un gioco innocuo e funzionale al senso della breve incursione nei testi e negli intenti dei quattro autori qui presentati. Detto questo, si possono paragonare i quattro poeti scelti (senza presunzione di esaurire, ovviamente, la conoscenza di tutta la giovane poesia campana contemporanea) ad altrettante radici di un albero. Ognuna parte dello stesso tronco ma ognuna è destinata a tracciarsi un proprio solco, una propria perfetta direzione. Queste quattro voci, infatti, hanno poche cose in comune ma, viste ognuna nella propria singolarità e specialità, possono rimandare indietro una mappa variopinta e interessante dalla quale riprendere, più in là e con buona volontà, si spera, un percorso/discorso più profondo e capillare di conoscenza e analisi.

 

 

Memoria dell’albero capovolto (Lampi di stampa, 2010) è l’ultima pubblicazione di Adriano Napoli, salernitano, classe 1973, insegnante di lettere, poeta, traduttore e critico. Tracciare un percorso onnicomprensivo della poesia di Napoli pare difficile, tanto più perché il suo lavoro si snoda in un arco temporale già importante. Mi limito, dunque, all’ultima valida prova dove l’elemento albero è una presenza che lenisce le stanchezze e un mito da conoscere, ri-conoscere e ripetere. La materia che Napoli padroneggia è un macromondo dove fare i conti con le rotture e le stravaganze della modernità, nel recupero di un tempo sicuro, imprescindibile, austero ma felice che è dentro l’infanzia. Così, è il poeta che deve trattenere la memoria delle cose andate via o messe troppo da parte. Ma il poeta è anche (e nel reale del Napoli e nell’ideale suo proprio, dunque in una coincidenza felice) un insegnante, il depositario di una bellezza semplice e sempre valida da tramandare con amore e dedizione. Sa slanciare (in un’identificazione con la natura che sembra premere con grazia sulla sua guancia, sulle sue mani, sui suoi occhi), così, i nomi di coloro che incrocia tra i banchi di scuola dal suo tronco verso il cielo, mostrando, con tenacia ma senza invasività, l’altra metà della medaglia, le ferite, le scorciatoie le quali hanno permesso che tutti perdessimo qualcosa (e, infatti, solo facendo i conti con le perdite appare intatto il verde che non muore mai). Tutto questo perché almeno il senso profondo, almeno il sentimento, possano tendere all’alto, a ciò che resiste sempre incontaminato.



Parco Ducale


Questo parco ha parole per tutti

ed alberi carezzevoli che scendono

ad ogni alba sulle ferite mortali,

esce furtivo dalla nebbia con il passo

esitante dei bambini quando tornano a casa

con le scarpe infangate o il giubbotto sdrucito,

una poltiglia di gelo è il bianco pallone

da calciare sotto il grugno torpido del giorno.

Porta in tasca gli amori solitari dei vecchi,

l’appetito millenario degli inverni,

a volte tace come un padre corrucciato,

ed è inutile rivolgergli la parola, conviene

in questi casi accucciarglisi nel grembo

come fa la neve nelle notti di gennaio.



L’albero capovolto


Non l’avevo mai visto il piccolo ponte

nascosto dalle alte terrazze del giardino,

ed oggi leggendo tra i cespi di aloe

e il rabarbaro le prima pagine della Legenda

di Jacopo, ho alzato lo sguardo e mi è apparso.

È lì – mi dico – dove è sempre stato

tra i costoni del monte rannicchiato e presago,

a volte si nasconde come un bambino

che si tuffa nella sorgente e gioca con le acque.

E non si vede. E pare che se ne sia andato.


Lo stesso accade quando una ghiandaia

sale nell’aria con un pesante scuoter d’ali

nel silenzio delle selve;

l’apparizione di una volpe o di un serpente

sul confine impalpabile di primavera,

e gli alberi familiari le rare case

non sembrano più gli stessi.


Quando le parole sradicate avvizziscono

come fiori, io cerco in luoghi elementari

ciò che in apparenza è diverso e lontano

e schiude la mente oltre la mia ombra murata

fin dove scavano i fiumi invisibili tra i dirupi,

e dal fondo di ogni tempo e della mia paura

alzo lo sguardo e l’ombra del grande faggio

mi traspare, me stesso capovolto,

ubriaco di memoria.


***


All’infanzia, all’età che raccoglie un’elegia pura e intoccata, guarda anche Stelvio Di Spigno, classe 1975, napoletano, laureato e addottorato in Letteratura Italiana. Ha pubblicato tre importanti raccolte e una monografia su Giacomo Leopardi. Se in Mattinale (Sometti, 2002; 2ª ed. accresciuta Caramanica, 2006) l’opera è quella dell’esplorazione e della delineazione prima e giovanile della propria identità nei confronti del mondo e degli altri suoi abitanti, a partire da Formazione del bianco (Manni, 2007) si precisa un percorso che cerca, piuttosto, di sbiadire il surplus odioso e malato delle cose presenti mettendole in contrapposizione con un certo “album di famiglia”, conosciuto, amato anche se a tratti soffocante, ma pur sempre caro e rassicurante. Ma è ne La nudità (peQuod, 2010) che il prendere coscienza dell’impossibilità di rifondare un’identità precisa e foriera di vita e progetti e svolte appare con chiarezza. Nel dramma umano (non privo di gioie come lampi, però) del presente, si innesta, allora, il recupero di un’infanzia dove sembra annidata ogni pienezza, lo stato puro dove sogno e realtà si ricompongono in un vagheggiamento che non vuole recare soluzioni. L’ultimo sforzo da tentare, con grande onestà, è quel dialogo col mondo in una lingua nuda: la descrizione di luoghi precisi, le mancanze, fatti e persone tutto, dunque, si scontra con l’impossibilità del dire che sappia anche costruire. Allora non resta che denudare gli intenti, le pre-concezioni, le idee, le macchinazioni psicologiche attraverso l’utilizzo di un metro musicale che si sposta da un ritmo classico a un’apertura verso un ignoto, un apparente sconfinamento nella prosa.



Escursione, 1978


Se c’è qualcosa che assomiglia a un paradiso,

è un auto con a bordo tre o quattro passeggeri

che vanno all’aeroporto senza troppi misteri

soltanto a vedere

il tuffarsi e rituffarsi degli aerei,

e pensare che un giorno l’abbiamo fatto anche noi,

che eravamo una famiglia e ci siamo rimasti,

siamo rimasti a domandarci

il perché degli aerei e del cielo,

e come tutto passi e noi stessi

avanziamo nei ricordi,

e se una luce di un pomeriggio nuvoloso

sia magari un segno e significhi qualcosa,

e cosa significhi il mondo, mentre noi che ci abitiamo,

riparati e contenti,

non possiamo capirlo e neanche ignorarlo.


Fine settembre


Si presentano a orari in cui ognuno prende il volo,

verso le sette di sera quando ancora c’è il sole,

e con i loro gridi prendono forme umane,

un gigante, per esempio, o un volto conosciuto,

tanto che l’occhio non distingue il perché del movimento

e vorrebbe saperne di più, ma questi stormi

fanno a gara con corriere e treni di fortuna

a sparire per primi, risucchiando

il brusio dei pendolari, la stanchezza dei passi,

la finzione di tutto.


Vanno dove si disperdono altre voci,

questa volta scaturite dalle case in lontananza,

e c’è chi come noi ricorda vagamente

dove abbiamo ascoltato per primi

le parole che non hanno ritorno.




***



Francesco Iannone, classe 1985, salernitano, esordisce nel 2011 per i tipi di Ladolfi con Poesie della fame e della sete. Giovane già apprezzato per i versi pubblicati in alcune riviste (Gradiva, Clandestino, Le voci della luna) e per alcuni premi ricevuti, viene ora fuori con una poetica compiuta e riconoscibile. Se della “fame” e della “sete” queste sono, allora, poesie essenziali e primarie. Beni primari (pane, acqua, olio…) informano ogni bisogno e richiesta perché è il momento della prova di volo che rileva, il primo ingresso consapevole nel mondo. Il salto spaventa ma Iannone sa come mantenere una parte di incoscienza e di fiducia proprie della fanciullezza, sa come non sprecare quella coscienza aurorale che rende ogni evidenza sempre e ancora una sorpresa. Sono un cantico creaturale alla maniera di S. Francesco, queste poesie, che contempla il bello, il divino, ma pure la miseria e l’imperfezione tutta umana, in una misura aperta e sincera che fa tremare il lettore poiché tenta l’analisi feroce di noi stessi, la riprova e l’esame della vita. E la poesia è il principio di tutto, perché è un seme che si rompe e germina qualcosa.



Prego i nidi rovinati dal vento

i corpi aperti e rovistati dentro

prego il seme rotto in attesa

di germoglio la resa

dei rami quando tutti i frutti pendono

prego l’occhio che sempre intercetta

e la mano appena scatta

per tutto quello che ora in fretta

si addormenta e spera.


*

I teli scossi dal vento

sulle serre della piana

colpi che hanno

il suono duro di un tamburo.

Intanto un insetto minuscolo vaga

attratto dal tepore di una luce

l’insetto minuscolo sfiora

il bordo rovente di un lampione

e si lacera un’ala.

Il suo cadere breve non si nota

in tutto quel fragore.

Il canto che questo temporale ora intona

è un coro di rami colpiti

uno squillare di pioggia caduta

sulle ringhiere.

Oggi ripensavo quell’insetto

il suo veloce planare e poi raccolto

sul letto che le foglie

in autunno per terra fanno.



 ***
Valerio Grutt, napoletano, classe 1983, pubblica nel 2009 con le Edizioni della Meridiana la sua opera prima “Una città chiamata le sei di mattina”. È anche narratore, cantautore e videomaker e, tra le altre attività, collabora con il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna. La poesia di Grutt sembra avere a che fare con l’immagine di un calderone sempre ribollente dove pescare a piene mani e dove conviene anche bruciarsi perché questo giovane scrittore si impegna a riportare in versi e semplici teorie un’epica (faticosa, terribile ma affascinante) tutta personale da eroe contemporaneo e metropolitano, auto-investitosi (e poi, però, riconosciuto dal lettore) così un po’ per gioco un po’ per impossibilità di fare altrimenti. Allora tutte le evidenze semplici, i dettagli quotidiani di questa o quella esperienza normalissima, ogni vicissitudine ritratta, lampeggiano con una forza dirompente e impossibile da non notare. Il tratto impressionista dei versi, il rendere ciò che è già noto sotto un’altra forma, viva e immediatamente recepibile sulla retina dell’occhio, fa dei versi di Grutt una sorta di film che riproduce l’età più difficile e bruciante.
Notoriamente la sconfitta, la disillusione, le pene d’amore cercano in ogni momento di rompere il guscio di ferro che scherma il poeta-eroe. Ma sono la voglia di sfondare le linee nemiche e la consapevolezza della “possibilità” di ricomporre le ansie e le fratture che permettono di tentare una sintesi, una rimonta in senso pieno e positivo.

 

 

a mio padre che sarà tra forbici e stelle

 

Quel giorno avevano chiuso agosto

con i limoni sugli occhi

non sapevo ancora niente

degli aperitivi e dei film di Burton

giocavo a pallone

con la maglia del portiere

al centro del grande zabaione

dove Napoli galleggia

nella sala d’attesa

tolsero l’acqua al pesce rosso

il dottor temporale disse di chiudere le porte rimaste socchiuse

ci caricarono il buio alla nuca e spararono

era un elefante con le gambe secche

e non ci volle molto a cadere

era l’ultima via Santa Lucia

che se ne andava timida dal golfo

hanno visto alzarsi in volo uno stormo

dalla piazza fredda del letto di mia madre

hanno tolto l’uomo

hanno sradicato le sue mani dalle mie

quando tornerà sarà davanti agli occhi di Antonio

e tra le braccia di Maria come il figlio che non ha

quando tornerà non sarà buio il corridoio

si siederà a tavola e dirà: “perché avete aspettato tanto…

potevate cominciare”.

 

 

*

se tu fossi stata innamorata di me

avrei trovato aperto un supermercato deserto

in cima alle stelle pieno di cioccolato

con gli scaffali lunghi del tempo rimasto sulle autostrade

e tu seduta nel carrello con un sorriso d’albero

avresti detto: voglio questo e voglio quello!

e invece patetico come l’uomo farò la fila con gli altri

e triste la cassiera mi darà il resto nel giorno grigio di un K.O.




 



 

mercoledì 19 settembre 2012

"Spero nei progressi della scienza", una poesia di Gervasio Muratori




A pensarci
ci vorrebbe un
clone,
che ti clonassero,
una clonazione
un pochetto guidata, però,
non eliminando nessuno
dei tuoi geni
ma diminuendo un pochino,
solo un pochino,
il gene della complicazione
e aumentando
quello della fiducia.

E poi
ci vorrebbe un incontro.

Spero nei progressi della
scienza
e
nella bontà del
caso.




Gervasio Muratori vive tra Napoli e Caserta. E' laureato in Lettere moderne.

mercoledì 6 giugno 2012

Valerio Grutt - "Una città chiamata le sei di mattina"




Valerio Grutt, napoletano, classe 1983, pubblica nel 2009 con le Edizioni della Meridiana la sua opera prima Una città chiamata le sei di mattina. Come sceneggiatore e regista ha realizzato alcuni video e, tra le altre numerose attività, collabora con il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna. La poesia di Grutt sembra avere a che fare con l’immagine di un calderone sempre ribollente dove pescare a piene mani e dove conviene anche bruciarsi perché questo giovane scrittore si impegna a riportare in versi e semplici teorie un’epica (faticosa, terribile ma affascinante) tutta personale da eroe contemporaneo e metropolitano, auto-investitosi (e poi, però, riconosciuto dal lettore) così un po’ per gioco un po’ per impossibilità di fare altrimenti. Allora tutte le evidenze semplici, i dettagli quotidiani di questa o quella esperienza normalissima, ogni vicissitudine ritratta, lampeggiano con una forza dirompente e impossibile da non notare. Il tratto impressionista dei versi, il rendere ciò che è già noto sotto un’altra forma, viva e immediatamente recepibile sulla retina dell’occhio, fa dei versi di Grutt una sorta di film che riproduce l’età più difficile e bruciante. Notoriamente la sconfitta, la disillusione, le pene d’amore cercano in ogni momento di rompere il guscio di ferro che scherma il poeta-eroe. Ma a ricomporre le ansie e le fratture sono la voglia di sfondare le linee nemiche e la consapevolezza della “possibilità”; sono queste cose che tentano una sintesi, una rimonta in senso pieno e positivo.

ar








a mio padre che sarà tra forbici e stelle





Quel giorno avevano chiuso agosto
con i limoni sugli occhi


non sapevo ancora niente

degli aperitivi e dei film di Burton


giocavo a pallone
con la maglia del portiere


al centro del grande zabaione
dove Napoli galleggia


nella sala d’attesa
tolsero l’acqua al pesce rosso


il dottor temporale disse di chiudere le porte rimaste socchiuse
ci caricarono il buio alla nuca e spararono


era un elefante con le gambe secche
e non ci volle molto a cadere


era l’ultima via Santa Lucia
che se ne andava timida dal golfo


hanno visto alzarsi in volo uno stormo
dalla piazza fredda del letto di mia madre


hanno tolto l’uomo
hanno sradicato le sue mani dalle mie


quando tornerà sarà davanti agli occhi di Antonio
e tra le braccia di Maria come il figlio che non ha


quando tornerà non sarà buio il corridoio
si siederà a tavola e dirà: “perché avete aspettato tanto…


potevate cominciare”.



*


se tu fossi stata innamorata di me
avrei trovato aperto un supermercato deserto
in cima alle stelle pieno di cioccolato

con gli scaffali lunghi del tempo rimasto sulle autostrade

e tu seduta nel carrello con un sorriso d’albero

avresti detto: voglio questo e voglio quello!

e invece patetico come l’uomo farò la fila con gli altri

e triste la cassiera mi darà il resto nel giorno grigio di un K.O.



*

Un giorno tornerai a Ischia lucente
isola sola, lontana mille anni dal mare.
L’abbronzatura all’oro degli anni
che brilla di notte al gelato d’agosto

e scale di case dall’aria salata
che increspa i capelli, e salite e discese dagli occhi.
A lui chiederai i capelli a cavatappi,
e di pettinarti giornate strappate all’abbraccio

della madre larga e del padre fascista
che ti compra le scarpe per camminare in campagna
e t’adotta alla zia che ti lascia una corda
per attaccare il sole a una sedia sul balcone.

Mamma che sfogli settimane enigmistiche,
e t’accendi al divano per le corde che stridono
dell’ascensore che mi porta al quarto piano.
Figlia di un marito scorpione e parrucchiere,

che giocava nella vita da angelo, tirato giù da un albero
a bere dagli spigoli le cose felici, tendeva una mano
al tuo sonno cattivo e tre figli, ti baciava sereno
come se non esistesse la pioggia ed il buio.

Tornerà la gioia del primo giradischi
la scoperta di cose naufragate nell’ombra.
Le ali aperte dei figli tuffati, alla buona pazienza
del cuore, di piazze, di auto al casello,

del respiro, vacanze, di sere finite
alla noia beata dell’essere soli.
Verrò a mangiare melanzane a funghetti,
all’alba del tuo sorriso preso a bellezza dei salti di uccelli.



*

Farei l'alba e le linee del cielo
con i segni lasciati dal cuscino
sul tuo volto appena sveglia, meraviglia
che ti togli dal sonno e vieni come gli uccelli
di giorno, la tua risata è chiamare il bene
per nome, alzi le reti dei fiori con lo sguardo.
Il fuoco e i confini, le sere gialle hanno la brezza
del tuo respiro, io ti sento esistere nel vento
che piega gli ombrelli, nel petto aperto
contro la notte che si abbassa addosso.
Voglio essere con te l'onda che s'alza
e si fa nuvola, fare come il polline chiaro
sui campi e la luce che libera gli angoli.









Per visitare il sito ufficiale di Valerio, clicca qui

La nota critica, con qualche variante, è apparsa in FAREPOESIA / Rivista di Poesia e Arte Sociale, N. 5 settembre 2011.

mercoledì 18 aprile 2012

Luciano Mazziotta - "Promemoria"







C'è una sorta di precisa chirurgia nella scrittura di Luciano Mazziotta, sia che si tratti di sue produzioni, sia che si tratti di critica su scritture altrui. Non sarà certo un caso che Luciano si sia dedicato, nei suoi anni universitari, allo studio di testi antichi circa il rapporto tra medicina e filosofia. Mazziotta, classe 1984, che ha esordito nel 2009 con "Città biografiche" (ed. Zona) è un classicista ma ha assorbito nel tempo tutta una serie di imprescindibili presenze novecentesche, virando più verso schemi, stili (e linee) sperimentali ma conoscendo anche l'opposto di questi, in un lavoro costante e densissimo. Se nel suo libro d'esordio spiccava una propensione alla decodificazione del linguaggio, alla sua destrutturazione e ricomposizione secondo linee e significati sghembi, mettendo a punto virate e ricomposizioni illuminanti e - a tratti - anche stranianti, negli ultimi testi (pubblicati anche su Nazione Indiana) la "nuova" ricerca si snoda attraverso un linguaggio più piano, decisamente rappacificato con i segnali esterni, dunque solidissimo, ma affonda poi (e questo è il punto estremamente interessante) in una dimensione di segni all'apparenza impercettibili, fischi e inciampi, strutture-dietro-le-strutture che costituiscono il mondo sommerso col quale fare i conti dal mondo emerso. Il godibile testo in prosa - a corredo del suo inedito, Promemoria (da "Previsioni e lapsus") - che mi ha mandato parla da sé, spiega benissimo il senso di questa mia brevissima incursione nelle sue intenzioni.





Promemoria



...e dei lapsus, che farne dei lapsus?
Se ogni volta che inciampi interrompi
un tuo ciclo vitale, è per perdere il filo,
per riprendere fiato e iniziare
da un indizio non valutato.



La linea si spezza: è naturale si spezzi.
Prendi ad esempio la Karl-Marx-Allee:
la memoria è geometrica, la storia è
compatta, compatto è l'asfalto:
non ci sono buche né vuoti.
Gli edifici non ammettono fughe
né pause, se pausa è un salto tra tempi,
da un ordine ordinario a un atto involontario:
come quando ti chiamo col nome
cui vagamente pensavo e diventi
proiezione casuale di una faccia
che niente ha a che fare con l'originale.



Sì, ma dei lapsus, quanti lapsus
per fare una storia? In un'eternità
avremo tutt'al più formato un ricordo,
una vaga sensazione di memoria -
come quel rumore intermittente
della freccia avvertito in dormiveglia
dopo un lungo tratto di autostrada.



Risvegliarsi è avere scelta: uscire
dai percorsi obbligati, incontrare
tombini e sostare.
Non sono eventi ma dati,
interferenze che tessono
un tappeto di dettagli marginali
al di sotto della microstoria:
sbadigli distrazioni impulsi
o scarti
necessari:
come le parole
dette giornalmente in modo compulsivo:



tu inciampi su reperti pentole cucchiai
conservati in pessimo stato e da qui
io ti scrivo.









Piccola nota giornaliera.
Nel De memoria et reminiscentia Arisotele sostiene che ogni nostra prassi, ogni nostra azione resta "impressa", quasi come un corpuscolo, nella nostra mente, trasformandosi col tempo in quello strano fenomeno chiamato "ricordo". Non so a cosa si riferisca Aristotele in questo passo ma so benissimo che le nostre azioni sono in grande percentuale non volontarie né tanto meno eclatanti. Muoviamo braccia, diciamo parole a caso, e agiamo molto più spesso senza alcuna consapevolezza. Il cuore è un muscolo involontario e le ciglia sbattono quasi di nascosto. Per non parlare degli starnuti, del respiro di cui sappiamo dire qualcosa solo quando manca. Queste azioni non esistono eppure è la loro somma che crea una vita. La linearità della memoria coatta non permette scivolamenti: e per questo bisogna interrogarsi tra l'immenso vuoto che separa Memoria e memoria. La maiuscola non è di poco conto. Un sistema condiviso come la Memoria non può che procedere per approssimazione, non può che non escludere dal suo sistema ciò che il sistema stesso ha definito "trascurabile". Ho voluto per un giorno oppormi a questa forma di anamnesi malata ma diffusa. Ho cercato di trascurare i mirabilia approssimati. Ho comprato un taccuino e ho deciso di annotare tutto ciò che componeva la mia giornata: un totale di 159 sbadigli, 97 stiracchiamenti, indefiniti movimenti delle mani che si aggirano intorno ai 30-40 per secondo. Ho mangiato più di tre volte ma purtroppo non sono riuscito a contare tutte le volte che ho sbattuto le ciglia. Ho chiamato una persona con un altro nome per 5 volte, pur non pensando all'altro nome, forse per una strana coincidenza che tra un morso alle labbra e un passo è diventata significante. A fine giornata ero così stanco, tanto stanco che mi sembrava di aver abitato un'altra dimensione: avrei ricordato per tutta la vita i miei sbadigli di quel 13 Maggio 2011. Avrei ricordato quante volte ho scrocchiato le dita e quante chiamate ho ricevuto: 2 in totale più una chiamata senza risposta (in questo mi sono aiutato, certo, con la memoria del mio cellulare). La mia giornata si era iscritta nella storia perché avevo fatto qualcosa di così tanto strano: pensare di aver fatto altro per fare tutto il resto, e soprattutto ricordare più l'altro che il resto.

L. Mazziotta





Luciano Mazziotta è nato a Palermo nel 1984. Specializzato in Scienze dell’antichità con una tesi in Testi greci filosofici e scientifici sul rapporto tra medicina e filosofia. Tra il 2006 e il 2008 ha vissuto tra Palermo ed Amburgo, città conosciuta nel 2006 nei panni di studente Erasmus. Nel 2009 ha pubblicato la sua prima silloge di poesie Città biografiche per la casa editrice Zona. Suoi testi sono stati pubblicati sui blog "Nazione Indiana", “La dimora del tempo sospeso”, “Via delle belle donne”, "Absolutepoetry", "Imperfetta Ellisse" e "Poetarum silva" di cui è anche redattore. Ha curato la Prefazione del volume miscellaneo che raccoglie i testi dei redattori di Poetarum Silva (Samizdat 2010). Nel Dicembre 2010 suoi testi sono stati inclusi nel 21° numero della rivista internazionale di letteratura “Poeti e poesia” diretta da Elio Pecora. Ha partecipato a readings ed eventi letterari di rilievo nazionale quali “La bellezza e la rovina” tenutosi a Palermo nel luglio 2010, il V° festival internazionale di poesia di Caltagirone, l'incontro sulla poesia contemporanea "A che punto del discorso. Poeti italiani di oggi" tenutosi a Pisa nel Maggio 2011 e "La notte della poesia. Il rito della luce" di Castelbuono. Da Marzo a Settembre 2011 ha vissuto a Berlino qualità di Post-Graduate Student presso la Humboldt Universitaet zu Berlin. Ora vive a Palermo in attesa di un'illuminazione.

martedì 17 aprile 2012

Due poesie di Salvatore D'Ambrosio

Previati, "Meriggio"



Immutabile apparenza

C’è una precisione di distanze
un equilibrio di misure
una geometria perfetta in sapiente
calcolato rapporto tra luce e buio
preordinato assetto dell’immutabile apparenza
matematiche esattezze sconosciute eppure certe
nell’invisibile mondo oltre il potere dell’occhio
dove l’esistere di pianeti orfani di stelle
solitario vagare nello spazio

Qui dall’altra parte
dove coperta di cielo poco riflette
precisioni distanze equilibri
solo vagare non altro
senza mai trovare di brillio riferimento
o dei passi l’orma permanente



 
Quietezza


Dove sono stato finora
per leggere Baudelaire a sessant’anni?
Dove ho sprecato la mia vita?


Sono stato dove sei stata anche tu
che chiedi e vuoi risposte, e dimentichi le attese
ché un vento sconosciuto senza nome
la smettesse di scarruffarci la vita.
Pesi, invidie, maldicenze, inganni,
enigmi, miscugli di colori e tinte inusitate,
caparra versata interamente e con sacrificio,
mentre s’aspettava che il tempo ci desse ragione.


Io e la mia vita cribro ed ostaggio delle ragioni del tempo!


Mentre l’unica cosa che graffiava ancora
era la grezza iuta sulla quale sconfitto adagiavo le spalle,
mi adopravo disperatamente alla fornace il fuoco
perché dovevo mostrarmi ancora
appiglio sicuro per chi mi aveva visto roccia.
T’invidiavo un poco per la tua serena caparbia resistenza,
fatto naturale di donna
custode di anatema di Eva.

Adesso siamo qui
in questa conquistata pigra banalità
dove io leggo tu cuci e ne siamo fieri
perché sapevamo che nessuno ci avrebbe insegnato
a riconoscere l’alba quando s’infila
nel limitare del buio della notte.




Salvatore D’Ambrosio, nato a Napoli, vive attualmente a Caserta. Professore in pensione, giornalista pubblicista, studioso di storia dei Borbone, ha scritto per oltre due decenni di Storia delle Poste su riviste specializzate. Partecipa da oltre venti anni a concorsi letterari in tutta Italia vincendo, nel tempo, il Premio Histonium nelle sue diverse sezioni, il Premio “Stolfi”Potenza, il Premio biennale di libro edito del Pollino, il Premio“Sandrina Miele” di Cassino, il Premio Laurentum, il premio “Esposito” Sorrento, il premio “Agostino Pensa” di Terni e il Premio Peter Russell - Napoli. Ha pubblicato nel 1989 uno studio sulla Storia postale dell’antica Terra di Lavoro (oggi provincia di Caserta) e l’opera prima di poesia “Barcollando nell’indicibile” (Bastogi editrice, 2009).