lunedì 27 giugno 2011

Marco Pivato - "A poca voce"





Basta sfogliare le recensioni, note critiche, pareri apparsi nel web che salutano con favore l’opera prima di poesia di Marco Pivato (classe 1980), di formazione chimico farmaceutico, per farsi un’idea chiara e precisa, ricostruire una mappatura certa della poetica di questo giovane autore. Quand’è così è sempre difficile essere quella che viene dopo, una che viene a raccontarci dell’altro. Altro da aggiungere? No, certamente. Dichiaro sin d’ora che non è questo il risultato cui tendo, quanto quello di diffondere una parola che va diffusa, discutere circa un’idea della poesia che va discussa. Mi spinge una necessità, dunque. Un dovere laddove esiste, senza dubbio, un merito. Le poesie di Marco, tratte dal libro “A poca voce” (Manni, 2008) sono una “riflessione scientifica” sull’amore che merita attenzione, una ricerca condotta con gli strumenti della parola poetica. Anzi, scienza e poesia sono due azioni strettamente connesse. Entrambe spingono verso la conoscenza del mondo, delle sue dinamiche. Lo stesso Marco in una bella intervista rilasciata ad Ennio Cavalli per Rai Radio1 dice che “la scienza, piuttosto che a farla, sono più bravo a raccontarla”. Cos’è che può essere raccontato a poca voce? Si può dire dell’amore con poca voce? Sembra di sì, se la botanica del sentimento basta a se stessa e scoppia di vita e di presenza perché così arriva, come una scoperta. E noi ne siamo vettori, a volte inconsapevoli, a volte partecipanti. Pivato, però, fa un salto in più: ne è osservatore interno ed esterno, non si tira indietro al momento della verifica, della dimostrazione della teoria. Non è solo un teorico ma esercita un empirismo amoroso; è un instancabile ricercatore eppure umile, col radar sempre all’erta e, forse, la sanissima paura di fallire (ora per favore, / reggi per me / la mia paura.). Questo è certo. Bene dice Zavoli nella sua prefazione: “[…] la ricerca e la conoscenza, la percezione e il sentimento di quello stato regale e del suo indefettibile dominio; e qui mi preme non lasciar prevalere l’idea che si tratti di un “canzoniere” dedicato non tanto all’amore, quanto a una alchimistica, combinatoria, innamorante felicità dell’animo e del corpo.” Ma anche lo stesso Marco, in una sua nota, specifica: “E questo è l’elemento comune a scienza e poesia: l’uso delle immagini. La scienza con la teoria, e la poesia con la retorica, tracciano immagini del mondo e dei suoi fenomeni. Nella volontà, più o meno conscia, di scienziati e poeti, c’è il desiderio comune di riprodurre il mondo, c’è la fantasia di ricostruirlo per renderlo presentabile, accettabile e comprensibile. Contemporaneamente dal punto di vista logico e dal punto di vista emotivo.” Penetrare, col corpo tutto, all’interno del poema della natura e riportalo chiaro e irriducibile all’occhio del lettore pare sia il movimento reale di Pivato, quello che si coglie forte e vivido leggendo i versi, travalicando, a volte, persino le dichiarazioni di poetica più su riportate: “È tarda primavera, / dormi con me su questo letto / di colza e di ginestre gialle.”; “Dimmi, / dov’è che sta la vita nelle persone? / Dov’è che fa radici? […] Sta nel riso? Nel chicco d’uva? / Dove sta? / Sta nel tuo smalto? / Nelle dita sottilissime?”. E a volte una risposta arriva come giunge una scoperta inaspettata, mentre si segue un percorso di metodo e rigore, di laboratorio, di chimica e formule. Ed è come per quegli eventi che accadono e che lo scienziato ripercorre in lungo e in largo per poter dare un senso, non riuscendo, però, neppure a fare a meno di riconsegnare loro quel poco di mistero che tutto intero non afferra: “Ti troverò ancora appollaiata come un angelo / sui ramuccoli sottili come le falangi […]”

anna ruotolo

***

V)

È tarda primavera,
dormi con me su questo letto
di colza e di ginestre gialle.
Siedi, e poi stenditi
sulla cima, qui con me,
all’eremo più alto del Montefeltro.
Il tuo amore era un’amarena;
ricordi il suo liquore?
Quando si versa fa gli archetti nel bicchiere.
Denso, viscoso il verso
che fa uscendo dalle gambe
era morbido, vino di visciole:
con la nostalgia dello zucchero
e dell’aspro a cui s’ispira.
Tu dicesti,
chissà se intendi ferire i miei fianchi
senza torcere il cuore,
o stringerli tutti e due prima solo con le parole.
Poi con la pelle, il petto, le smorfie delle labbra,
tenendo gli occhi chiusi
per vedere meglio cosa mi farai dentro.


VII)

Nella zuccherosa notte di aprile,
a tempo col fiato delle foglie;
sui fianchi tuoi,
in assolo col miele dei tigli:
non ci siamo mai baciati.
Le parole erano petali,
verdi schiume e polline secco.
Il tempo voleva fare l’estate,
la potenza del nostro incontro distendersi
come la linfa delle gemme nelle vitamine dei frutti.
Le nostre confessioni, invece,
tiravano tardi a germogliare
le sillabe di marzo.
Mai ci siamo detti che ci amiamo.
Primavera s’allungava in una scia e trovava libertà;
noi vendevamo acerbi i nostri cuori
soltanto a piccoli sguardi.


IX)

Lasciaci stare;
se ti amerò per sempre non posso conoscerlo,
se mi sposerai per sempre tu non sai,
se per questo,
avrai abbastanza domeniche,
sufficienti primavere.
Mentre aspetterò senza guardarle,
sarà piacevole la mia contraddizione:
non reggere all’idea
che se ti toccherò le gambe
non sarò più di nessun’altra.
Mentre decideremo di avvicinarci,
le mie mani non sapranno,
quale legge le farà cadere sulle guance,
piuttosto che ovunque.
Ci ameremo,
senza essere,
tu ed io,
arbitrariamente liberi
di evitarne la paura,
la scelta
di non farlo accadere.


X)

Tienimi la mano,
la tua mano fantasma in inverno.
Io ti prego,
mentre di spalle
l’estate mi spinge
al bagno più tremendo.
Ora che il tuo corpo è morto
mi chiedo dove stavi prima.
Dimmi,
dov’è che sta la vita nelle persone?
Dov’è che fa radici?
Quale distretto delle membra morde alla gente
per resistere aggrappata tanti anni di passioni?
Che sia nel cuore?
O nelle ossa?
Tu la tenevi nella gonna
che ora ha perso il tuo odore e le tue molecole.
Sta nel riso? Nel chicco d’uva?
Dove sta?
Sta nel tuo smalto?
Nelle dita sottilissime?
Io ricordo:
semplicemente,
stava in quella graziosità,
quella tua di portare dei fiori sulla camicia.


XI)

Lasciami soltanto, se vuoi,
lo spicchio di Luna
del tuo piccolo sorriso.
Lasciami
il tuo spicchio di Luna,
che meritava sempre il perdono
quando mi tagliava con le falci,
bianche e rotonde.
In cambio
ti regalo le mie mani
con l’inganno di donartele,
senza dirti che i tuoi fianchi
non m’hanno mai permesso
di ritrarle.
Mi tengo uno spicchio
del tuo sorriso lunare;
lo prendo da quella sera che eravamo al mare
quando mi dicesti:
con la sabbia faremo un castello
e vivremo per sempre lì.
Quella volta io risposi
sì,
anch’io ti ho scelta:
ora per favore,
reggi per me
la mia paura.


XIV)

Ti attendo Novembre,
nel ferro freddo dello scorrimano
che scende in cantina
dove c’è vino forte per la sera,
che scende in giardino
dove l’incuria di un Sole canuto
ti sparge in migliaia di aghi.
Ti aspetto strutta sui cadaveri di marzo:
non ti si vede mai con gli occhi;
è l’olfatto a precederti senza appuntamento:
sei l’odore delle foglie,
dopo la pioggia, nella fossa dell’autunno.
Ti troverò ancora appollaiata come un angelo
sui ramuccoli sottili come le falangi:
nelle ombre degli alberi
che infilzano il muro della casa,
quelle che scompaiono alle cinque del pomeriggio
non appena che la Luna le ha crocifisse sull’asfalto.








Marco Pivato, di formazione chimico farmaceutico, si è specializzato in giornalismo scientifico alla Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste. Attualmente è redattore presso il gruppo del Quotidiano Nazionale. È membro della Società italiana di tossicologia (Sitox), dell’Unione giornalisti italiani scientifici (Ugis) e dell’Associazione stampa medica italiana (Asmi). Si occupa del rapporto tra scienza e società e in quest’ottica ha pubblicato “A poca voce” (Manni 2008), poemetto dedicato ai luoghi poetici della scienza con prefazione di Sergio Zavoli e un breve saggio sul rapporto tra scienza e poesia. Ha inoltre recentemente pubblicato “Il miracolo scippato” (Donzelli 2011). “Valmarecchia misteriosa” (Capitani editore, 2011), una guida in poesia, un cantico sulla natura di una delle più belle valli d’Italia, con prefazione di Sergio Zavoli, è in corso di pubblicazione.



(articolo già pubblicato in Giovin/astri di Kolibris)

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